Un possibile racconto dello scrittore morto a 77 anni

Milano, 2 mag. (askanews) – “Qui non c’è nessun Paul Auster”. Probabilmente inizia con questa frase, che viene pronunciata nelle primissime pagine del romanzo “Città di vetro”, che apre la “Trilogia di New York”, la grande fama di Paul Auster, lo scrittore di Brooklyn che è morto il 30 aprile a 77 anni lasciando una cospicua eredità di romanzi e una storia personale complessa e affascinante. A pronunciare la frase è Quinn, il protagonista del libro del 1985, dopo avere ricevuto una telefonata notturna di qualcuno che, con la massima urgenza, cercava l’agenzia investigativa Auster. Quinn riattacca, ma il telefono squilla ancora, e poi ancora e alla fine, poche pagine dopo, sentiamo la sua voce, di Quinn, rispondere: “Sono io. Paul Auster in persona”. In un certo senso in quel fulminante incipit romanzesco c’era già gran parte della storia che i libri di Auster avrebbero poi raccontato, perché c’era il principio della scomposizione delle identità, c’era il tema del doppio, c’era l’irrefrenabile desidero di una narrazione che fosse in grado di abbracciare tutta la vita, dentro e fuori i libri. Per questo Paul Auster, di cui oggi è bello ricordare tanto lo sguardo appuntito quanto le chiacchierate con Don DeLillo e Philip Roth sul baseball, è stato uno scrittore importante, per questo è tuttora uno scrittore pericoloso, nella misura in cui i suoi libri rompono lo spazio di separazione tra il lettore e la pagina letta, stabiliscono un patto narrativo diverso, nel quale noi siamo complici prima che spettatori. Come Quinn che diventa l’investigatore Auster. Come noi che passeggiamo a Park Slope sperando di incontrare lo scrittore. Come l’essere testimoni della storia di Benjamin Sachs nel suo romanzo più importante e decisivo: “Leviatano”, che, non a caso, è il titolo di un altro romanzo, che sta all’interno del romanzo stesso che noi stiamo leggendo. Forse il livello di compromissione più alto e affascinante a cui possiamo ambire come lettori. Questo era Paul Auster, per questo mancherà. Per questo resterà.

La Trilogia, ma anche “Mr. Vertigo”, “L’invenzione della solitudine”, “La notte all’oracolo”, “4 3 2 1”. Sono tanti i libri da ricordare, ma su tutti, per il suo potere attrattivo, resta proprio “Leviatano”. La storia di un’amicizia, quella tra Aaron e Ben, che diventa la storia di una vocazione alla scrittura, ma anche un racconto sugli attentati compiuti dal Fantasma della Libertà, che fa esplodere le copie della Statua della Libertà sparse in tutta l’America e il tentativo di salvare l’amicizia, oltre che, in un certo senso, il mondo intero. Ma dentro la narrazione principale, che trascina il lettore in un coinvolgimento diretto, ci sono molte altre storie, come quella dell’artista immaginaria Maria Turner che si ispira alle pratiche della reale artista Sophie Calle, e che nel libro realizza alcune azioni immaginate da Auster, che Calle, dopo l’uscita del romanzo, a sua volta metterà in atto imitando Maria Turner. Ancora uno specchio davanti a un altro specchio, ancora una riflessione che tende verso l’infinito, in una vertigine più grande di quella di Walt Rawley, che da bambino aveva imparato a volare. E in tutti questi specchi dov’è Auster? Dove siamo noi? Che cosa fa la letteratura? Tutto, niente, ogni cosa, ovunque, da nessuna parte. Un Leviatano che non raggiungeremo mai, ma della cui potenza, come il filosofo Thomas Hobbes, possiamo essere certi. Perché sprigiona proprio dai romanzi.

Canto, perciò, di niente, come se fosse il luogo verso cui non ritorno – e dovessi tornare, conterei la mia vita in questi sassi: scordando di essere mai stato qui. Il mondo che entra in me è un mondo irraggiungibile.

E’ una poesia di Auster degli anni Settanta, anni di Francia e solitudine prima del successo. Leggere oggi quei versi è utile per ripensare un po’ tutta la parabola di uno scrittore di successo, che comprende anche le sue fragilità e le sue sconfitte. Il mondo resterà irraggiungibile, ma il prisma della letteratura è uno dei modi in cui possiamo comunque provare a immaginare come sarebbe raggiungerlo davvero. Nello stesso modo in cui il protagonista di “Smoke”, uno dei film scritti da Auster, fotografava ogni mattina il panorama davanti alla sua tabaccheria. Sono le prove che restano, le tracce di quello che abbiamo visto, sognato, immaginato, sofferto, raccontato. E forse, ripensandolo, come facevano i Romantici inglesi, potremmo anche credere di averlo vissuto. Almeno nei libri, spazio infinito per definizione. Spazio di follia e possibilità. Qui non c’è nessun Paul Auster, certo. Ma grazie (anche) a lui possiamo dire (talvolta) di esserci noi. (Leonardo Merlini)

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